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La crisi delle Marche e di alcuni distretti

10 Dicembre 2018

di Massimo Valentini, pubblicato da “Il Resto del Carlino” il 9 dicembre 2018

 

I dati dei vari Osservatori socio economici concordano nel cogliere il processo di meridionalizzazione delle Marche che ormai viaggia su parametri molto simili alle regioni meridionali rispetto ai trend delle regioni più avanzate del Paese. In particolare le provincie del sud, Ascoli e Fermo, stanno soffrendo con più intensità questo processo di marginalizzazione rispetto alle aree più vitali dell’Italia. Desta particolare stupore l’evoluzione della provincia di Fermo che negli ultimi 60 anni è stata sempre considerata sede di uno dei distretti produttivi più interessanti di tutto il Paese. Che cosa è successo? Il necessario dibattito sulle cause di questa crisi deve avere il coraggio di non soffermarsi a questioni parziali che non possono dare gli strumenti per poterla affrontare adeguatamente. E’ fuorviante ridurre la crisi del settore calzaturiero alla crisi commerciale con la Russia, come è riduttivo soffermarsi solo sulla crisi della rappresentanza politica del territorio. Indubbiamente la recente classifica sulle qualità della vita nelle provincie italiane che vede precipitare il fermano e il riconoscimento dell’area di crisi complessa che sembra arriverà a giorni sono eloquente documentazione di quanto sopra evidenziato. Certamente in una buona parte della politica locale, sia partitica che associativa, ci sono responsabilità in quanto la marginalizzazione di questo territorio è anche dovuta alla perdita di connessione con le esigenze del popolo e alla prevalenza data al rapporto con il potere in auge nel momento. E’ sufficiente per rappresentare un territorio ricercare esclusivamente uno “strapuntino” nei poteri in carica condividendo una vecchia politica consociativa, peraltro già bocciata dalla maggioranza degli elettori e dalla maggioranza delle imprese e che negli anni ha marginalizzato questo territorio ? Oppure abbiamo bisogno di una politica che coordini una visione di sviluppo territoriale attuata dai vari soggetti sociali? Ma non è sufficiente fermarsi a questa considerazione in quanto altre domande si impongono. Gli uomini di impresa del territorio erano e sono preparati ad affrontare la crisi ? La rigidità e l’autoreferenzialità di un modo di fare impresa che andava bene negli anni 70/80 è stato travolto dalla crisi portata dalla globalizzazione. Quanti imprenditori sono stati umilmente disponibili al cambiamento? Quanti hanno fatto della collaborazione sia interna che esterna la leva per la necessaria innovazione? Ma non basta ancora perché dobbiamo farci delle domande anche sulle capacità educative che esprime il territorio. I vari ambiti educativi, a partire dalle famiglie sino ad arrivare alle scuole e alle associazioni varie, sono state in grado di comunicare un ideale positivo per la vita? Che la realizzazione di sé non passa dai livelli di successo o di consumi raggiunti ma da una tensione ideale che fa abbracciare sacrifici e responsabilità non solo per sé, ma per le proprie famiglie e per tutti gli altri uomini con cui si ha a che fare, che vive il rapporto con l’altro come l’occasione per condividere e crescere, che è in grado di vivere il gusto dell’intrapresa? Come si vede se si vuole comprendere sino in fondo le radici della crisi non si può sfuggire ad un approfondimento che mette in discussione in primo luogo sé e non l’altro, solo così può partire un percorso condiviso di rigenerazione territoriale che guarda in primo luogo le esperienze del territorio che mostrano questa capacità di affrontare il cambiamento epocale proprio perché hanno avuto il coraggio di andare a fondo del cambiamento di sé. A mio avviso tutto il territorio dovrebbe aprire un confronto su queste domande complessive, altrimenti rimanere in superficie non serve. Solo in tale prospettiva uno Stato Generale del territorio può essere utile.