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Il “nostro” amico Leopardi

7 Agosto 2014

Villa Montanari-Rosati a Porto San Giorgio. Un’abitazione d’altri tempi immersa in una collina di grande verde. Oltre cento sedie disposte dinanzi all’ingresso. Tutte occupate nonostante una brezza non certo tiepida di un’estate che stenta ad arrivare, se mai arriverà. E’ mercoledì 6 agosto. La luna è velata. Ma c’è. La intravediamo tra i pini marittimi e le palme.

Sergio Soldani, più tardi accompagnato dal violino della brava Daniela Carlini, recita il Canto Notturno di un Pastore Errante dell’Asia. Due le domande che risuonano: che fai tu luna in cielo?…ed io che sono?

Ci troviamo in questo luogo magico, invitati da Meet in Villa del Comune sangiorgese per dialogare su Giacomo Leopardi.

Mario Elisei ha scritto un libro. Un titolo che cattura: “Il mio amico Leopardi”. E’ un successo editoriale. Uscito ad aprile scorso, la prima edizione è già andata esaurita. In tre mesi ha venduto 2.500 copie. Solitamente, in quattro anni libri sul poeta recanatese quando vendono bene vendono 7 mila copie in tutto.

Ma perché attira questo volume? E perché, nei tempi del divertimento estivo, della distrazione voluta ed imposta, è capace di attrarre centinaia di persone?

Quello di Elisei è un Leopardi diverso, umano, pieno di contraddizioni e, soprattutto, pieno di domande. Pessimista lo è sino in fondo, ma la sua grandezza non deriva dalle risposte che dà, ma dalla domande che pone. Chiedere è forse la stoffa vera dell’uomo.

Domande che aprono gli sguardi, che offrono l’occasione per indagare più al fondo il nostro essere uomini.

Ecco, Leopardi è il grandissimo poeta esistenziale che mette l’uomo dinanzi ai grandi enigmi praticando, di fatto, un pertugio dove infilarsi per guardare la vita in modo diverso e più profondo.

Ed io che sono? Appunto.

Elisei spazia dal Pastore Errante sino Alla sua donna, dalla lettera della Befana allo Zibaldone.

Francesco De Santis che di Leopardi fu contemporaneo ammise che la lettura del recanatese compie l’effetto inverso a quello voluto: il pessimismo abulico si trasforma in energia, il miscredente dà la cifra di una possibilità religiosa possibile, il non amato ama.

Vediamo che Leopardi fugge dal “natio borgo selvaggio”. Fugge a Roma, ma non trova lavoro, lo potrebbe facendosi prete, ma non vuole. I letterati del tempo lo snobbano. Gli viene proposta la traduzione delle opere di Platone. Ma il compenso è ridicolo.

Giacomo torna a Recanati, con un atteggiamento completamente mutato. Ora apprezza il palazzo avito, i suoi silenzi, il campanile, la piazzetta. Si è innamorato. Lo si capisce dall’inno “Alla sua donna”. E quando ci si innamora tutto cambia, tutto viene ricompreso  in un nuovo modo di intendere l’esistenza: il buio si fa luce.

Ma è uno sprazzo. Giacomo ripiomba nel suo pessimismo. Ranieri lo accoglie a Napoli. Non è storia omosessuale come si racconta tra prurigine e scarti. E’ vicenda di un’amicizia forte, vera, duratura.

Perché amare Leopardi, allora? Perché ci invita, anzi, ci obbliga a ripensare questa nostra umana avventura. Ad andare al succo delle cose. A quell’Infinito che lui ha sempre ambito. Uno spalancamento e non una chiusura.

Ribadiamo allora la provocazione di De Santis riportata per intero nell’introduzione de “Il mio amico Leopardi”: «Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende un desiderio inesausto».

 

 

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